venerdì 7 dicembre 2012


Il libro di sabbia


TRAMA: È il fantastico il carattere dominante di questi tredici racconti, cui se ne aggiungono altri quattro in appendice mai radunati in un volume, in cui si concentrano i temi e i simboli che a Borges sembrano connaturati. In "L'altro", Borges settantenne, seduto su una panchina a Cambridge nel 1969, discorre con se stesso ventenne, seduto su quella stessa panchina a Ginevra nel 1918; nel "Libro di sabbia", il narratore acquista un libro senza principio né fine, composto da un numero infinito di pagine numerate arbitrariamente. Questi racconti rappresentano un ritorno alle atmosfere lucidamente visionarie degli scritti degli anni Quaranta. Ma diversa è la scrittura. Lo stile piano, quasi orale, si congiunge con una trama impossibile.


RECENSIONE: Il libro di sabbia fu pubblicato per la prima volta nel 1975. L'editore Adelphi lo propone con l'aggiunta, in appendice, d'altri quattro brevi racconti. Borges, nella sua vita, scrisse effettivamente solo racconti, convinto che questi, a differenza dei romanzi, "si potessero abbracciare in un solo sguardo".
L'amore sconfinato per i libri emerge anche in quest'opera, a partire dal titolo stesso. Del resto, poche definizioni del libro, inteso come strumento, sono più efficaci rispetto a quella fornita dallo stesso autore: "Il più sorprendente fra i vari strumenti dell'uomo. Gli altri sono estensioni del suo corpo. Il microscopio, il telescopio sono estensioni della sua vista; il telefono, estensione della sua voce; l'aratro e la spada, estensioni del suo braccio. Ma il libro è un'altra cosa; il libro è un'estensione della memoria e dell'immaginazione."
In un'atmosfera onirica s'intraprende il viaggio attraverso le inquietudini, i paradossi e i temi ricorrenti dello scrittore. La biblioteca, il labirinto, lo specchio, l'altro.
Numerosi sono i riferimenti autobiografici. Nel racconto L'altro e in Venticinque agosto 1983 il protagonista (Borges medesimo) incontra un altro sé stesso in una diversa età: nel primo caso l'io narrante è il sé più anziano, nel secondo esattamente il contrario.
Ci si è spesso chiesti se Borges fosse più filosofo o più scrittore. Indubbiamente i suoi racconti, ricchi di citazioni, evidenziano la sua raffinatissima erudizione.
L'autore, per sua stessa ammissione, cominciò molto presto ad interessarsi alla filosofia. Nel racconto iniziale della raccolta, l'incontro fra i due Borges avviene davanti ad un fiume: l'accenno al tutto scorre di Eraclito, quindi, non risulta essere per nulla casuale.
I riferimenti filosofici non finiscono qui. Il tema dell'infinito, che l'autore propose in tante sue poesie, è ripreso anche ne Il libro di sabbia e Le tigri blu. Nel primo si narra di un libro costituito da un numero infinito di pagine, che si moltiplicano e dividono a seconda del momento. Impossibile sperare di mettere ordine fra le stesse pagine, poiché esse sono appunto come granelli di sabbia, che si disperdono e si ricompongono, senza rispondere ad alcuna legge fisica.
Le tigri blu sono invece dischetti che, come le pagine del libro citato, hanno il potere, una volta toccati, di moltiplicarsi e dividersi senza un'apparente spiegazione logica. Il protagonista di questo racconto, uno studioso di Spinoza, venutone in possesso, è costretto a riconsiderare tutte le leggi della matematica, sovvertite da questo bizzarro, e altrettanto inquietante, fenomeno. Alla fine, non senza spavento, sarà costretto a rinunciare all'idea dell'esistenza di un universo costruito "more geometrico".
Gli altri racconti sono di minore spessore, ma non per questo meno apprezzabili.
Il cuore ed il senso del racconto fantastico è proprio questo: le leggi che ci sono famigliari non sanno spiegare un determinato avvenimento. Il lettore prova quindi una vera e propria esitazione fra la spiegazione naturale e quella soprannaturale degli avvenimenti.
Spetta a lui la scelta finale.
Buona lettura. 



Titolo: Il libro di sabbia
Autore: J.L. Borges
Editore: Adelphi
Anno: 2004
Genere: Fantastico
Giudizio: Ottimo
 

domenica 8 luglio 2012

La falce dell'ultimo quarto


TRAMA : Stato della Chiesa, piena Restaurazione. Nulla scuote l'atmosfera torpida della piccola città papalina in cui "gli anni sembrava fossero di mille giorni e i giorni di cento ore". Ma in casa di Bartolomeo Bartolini, ricco mercante di granaglie, non regna la pace: Giacomo, l'amato nipote ventiduenne, dà allo zio un grattacapo dietro l'altro. Non solo frequenta compagnie pericolose, ma fugge con una cantante rossa di capelli e più vecchia di lui. Non minori preoccupazioni, anche se di tutt'altro genere, dà al mercante il figlio Orfeo, ventiseienne, che è solitario, dimesso e malinconico quanto il padre è socievole, esuberante e collerico. L'unica arma che ha Bartolomeo è il proprio testamento.

RECENSIONE: Piero Meldini, riminese, nato nel 1941, ha diretto per ben venticinque anni la Biblioteca Gambalunghiana, nella sua stessa città.
In detta Biblioteca, fondata nel Seicento, sono conservati importanti manoscritti e fondi storici.
Questo è un utile preambolo per meglio comprendere La falce dell'ultimo quarto, sua più recente fatica. Un'opera indiscutibilmente ben scritta, non priva di riferimenti storici. Vi si narrano gli ultimi, tribolati, anni di Bartolomeo Bartolini, agiato mercante, alla trepida ricerca di un degno successore.
Dal momento che Orfeo, il figlio legittimo, non sembra avere l'indole ed il temperamento necessario per condurre gli affari, la scelta cade su Giacomo, il nipote prediletto, già braccio destro di Bartolomeo.
Questi gli somiglia sia fisicamente che nel carattere, comprese le turbolenze della giovane età, caratterizzata dai colpi di testa, l'amore per le belle donne e la buona tavola, oltre che per le allegre compagnie.
Purtroppo la fortuna sembra accanirsi contro i progetti di Bartolomeo. Ad ogni rovescio della sorte, l'anziano commerciante apre il cassetto del secrètaire dove tiene custodito il testamento, per aggiungervi nuove modifiche.
Ad ogni rocambolesca fuga del nipote, è convocato il Notaio, che, secondo un solenne rituale, imprime freschi sigilli al testamento rimaneggiato. Le ultime volontà, continuamente rivedute, quindi, anziché rappresentare un sollievo per il vecchio Bartolini, costituiscono il vero motivo della sua pena.
A tormentare il vecchio mercante, forse, è semplicemente l'horror vacui, contro il quale neppure la religione sembra rappresentare un valido rimedio.
Meldini è pure saggista e giornalista. Si è occupato, oltre che di storia contemporanea, anche d'alimentazione, e pare sia un esperto cuciniere.
Ne La falce dell'ultimo quarto, infatti, non mancano le tavole imbandite ("arrosti, capponi ripieni, salse, bocche di dama, mostaccioli, pinocchiate"), ed il protagonista sarà talvolta vittima della sua stessa crapula.
Una preziosa fonte di notizie si è rivelata essere la Biblioteca Gambalunghiana, sia per i dettagliati riferimenti alla toponomastica della Rimini d'inizio Ottocento, sia per gli aneddoti riguardanti i "tesori maledetti" celantisi nelle soffitte o sepolti nelle cantine; racconti sospesi fra la superstizione da una parte e la leggenda dall'altra.
Il finale lascia il lettore nel dubbio, circa le sorti dell'intero patrimonio dei Bartolini.
E lascia intendere una verità inconfessabile: in ognuno di noi nasconde il desiderio di tracciare un piccolo segno del proprio passaggio.
Ai nostri discendenti, o alle nostre opere, affidiamo questa incombenza: per garantirci, se non altro, una seppur piccola illusione d'immortalità.

 
Titolo: La falce dell'ultimo quarto
Autore: Piero Meldini
Editore: Mondadori
Anno: 2004
Genere: Romanzo
Giudizio: buono

domenica 15 aprile 2012


Tutti i nomi

Stile inconfondibile, sottilmente ironico, quello di Saramago: un ritmo dapprima lento che si fa a poco a poco incalzante, una punteggiatura costituita solo da virgole e punti, nonostante i numerosi dialoghi.
Fra tutti i nomi cui il titolo si riferisce, il lettore ne conoscerà uno solo, quello del protagonista: il Signor José.
I colleghi, i capi ed i vice saranno invece contraddistinti solo dai loro incarichi; anche la donna sulle cui tracce si metterà lo scritturale, rimarrà anonima.
La stessa città dove si svolge l'azione è indefinita, per di più come sospesa, potremmo dire, fra passato e presente.
Due imponenti edifici fanno da cornice all'intero romanzo: da una parte la Conservatoria Generale dell'Anagrafe, e dall'altra, copia fedele, gli uffici del Cimitero Generale.
In entrambi i casi, vi si accede varcando un identico portale, mentre, all'interno, parallelo all'entrata, un bancone attraversa il grande locale da una parete all'altra.
Dietro il bancone trovano posto gli impiegati, secondo uno schema a piramide, che segue la più rigida gerarchia, e al cui vertice si trovano rispettivamente il Conservatore per la Conservatoria dell'Anagrafe ed il Curatore per il Cimitero.
La Conservatoria Generale dell'Anagrafe, sebbene immensa, è fiocamente illuminata, polverosa e malsana: le scartoffie hanno preso il sopravvento, occupando gran parte dello spazio disponibile (in assenza, si dovrà ammettere, di un efficace criterio di catalogazione). L'atmosfera, al suo interno, è altrettanto cupa, inesistenti i rapporti fra colleghi, soggiogati da un'austera disciplina.
Vita e morte si rincorrono, indissolubilmente appaiate, anche quando si tratta della loro semplice registrazione su di un documento (nessuno meglio di un addetto ai lavori può capire), poiché, come lo stesso Saramago annota, sono i documenti che “conferiscono esistenza legale alla realtà dell'esistenza”.
Legato per logica conseguenza alla Conservatoria, è il Cimitero: un luogo ameno, rispetto alla prima (la mente corre, per associazione, al Cementerio dos Prazeres di Lisbona), che, privo ormai delle mura perimetrali, si ramifica all'interno della città, ne modifica il paesaggio, ne cambia i confini, si insinua nei campi e negli orti, mescolando, irrimediabilmente, il mondo dei morti con quello dei vivi.
All'interno del Cimitero pascolano quindi le pecore, crescono frondosi alberi, scorrono ruscelli. Lungo i suoi interminabili viali passeggiano i visitatori; insomma un luogo notoriamente deputato alla morte, pullula invece di vita.
Il tran tran quotidiano del Signor José, grigio scritturale ausiliario della Conservatoria, sarà stravolto dall'ossessione per una donna che lui nemmeno conosce, se non attraverso gli scarni dati di una scheda anagrafica.
José, un uomo di mezza età, privo di affetti, che conduce una misera esistenza - ma sempre nel pieno rispetto delle regole - d'un tratto comincia a mentire, commette infrazioni, passa notti insonni, oppure all'addiaccio.
A causa di questa ricerca, sulla quale si incaponisce, la sua vita professionale comincia a risentirne; mentre è la sua vita privata a guadagnarci, il Sig. Josè d'un tratto si scopre, con sua stessa meraviglia, essere un uomo arguto: sa affrontare gli imprevisti, pianifica le sue mosse, dissimula egregiamente.
Si sente meno solo, perché stringe amicizia con un'anziana signora, e comincia ad interrogarsi sull'amore.
E a riprova che vita e morte si intrecciano, sarà dalla morte di un'altra persona, che la vita del Sig. Josè acquisterà finalmente un senso. 


Titolo originale: Todos os nomes
Autore: José Saramago
Editore: Feltrinelli 2010
Anno: 1997
Genere: Romanzo
 

mercoledì 7 marzo 2012


La ragazza delle arance


TRAMA: Georg Røed ha quindici anni e conduce una vita tranquilla, come la maggior parte dei suoi coetanei. Ma un giorno trova una lettera che suo padre gli aveva scritto prima di morire e che aveva poi nascosto, affinché il figlio la potesse trovare una volta grande. In questa lettera il padre, Jan Olav, racconta la storia della "ragazza delle arance", una giovane con un sacchetto di arance incontrata un giorno per caso su un tram di Oslo e subito persa. Per Jan è un colpo di fulmine. Georg si appassiona a questo racconto, che si accorge riguardarlo molto da vicino e che pian piano gli svela ciò che è accaduto prima della sua nascita; un racconto attraverso il quale la voce del padre lo raggiunge da lontano facendolo riflettere sul senso della vita.

RECENSIONE
Durante un breve tragitto in tram, Jan Olav vide una misteriosa fanciulla, di cui, subito, s’innamorò. In seguito la passione crebbe, nonostante i pochi e fortuiti incontri, intervallati, per lo più, da molte e vane ricerche. Ogni volta che s’imbatteva in lei, Jan notava che questa reggeva un pesante involto, contenente delle arance: innumerevoli, quindi, furono le congetture riguardo al possibile utilizzo di quei frutti. Col trascorrere del tempo, la “ragazza delle arance” riuscì a conquistare un posto sempre più importante della vita di Jan Olav, al punto da rendersi insostituibile.
Molti anni dopo, e conscio del fatto che la fine è ormai vicina, Jan Olav, ora giovane padre di Georg, scrive una lunga lettera al figlio (che ha poco più di tre anni), nella speranza che un giorno, non molto lontano, questi la possa leggere.
Lo scritto che Jan dedica al figlio è una sorta di testamento, morale e spirituale: in esso, egli non solo rievoca il suo passato, e la nascita di un grande amore, ma rende al contempo partecipe Georg del proprio pensiero, della propria essenza.
Si mostra come mai avrebbe osato mostrarsi se fosse sopravvissuto: lascia libere le sue paure, i suoi dubbi, il suo entusiasmo.
Molteplici sono i suggerimenti contenuti nella lettera che il padre, dal passato, invia al figlio: Georg, dopo averla letta, si sentirà più maturo e consapevole. Guarderà ai suoi famigliari con occhi diversi, e grazie alle parole del genitore, comprenderà come al mondo esistano delle regole, e di come queste regole vadano rispettate, pena l’eventuale perdita di tutto ciò per il quale si è tanto lottato.
Jan Olav, tuttavia, non si accontenta di richiamare alla mente eventi dolci e dolorosi al tempo stesso; incalza il figlio con domande, sempre più articolate, sul significato della vita.
Nel periodo in cui la lettera fu scritta, il telescopio Hubble fu lanciato in orbita, con il compito di trasmettere un numero considerevole d’immagini dallo spazio: una specie di occhio umano, che viaggia attraverso l’universo.
Jan chiede dunque al figlio che ne è stato, a distanza di anni, di quel telescopio: fatalmente il discorso si ampia, e Georg, grazie al padre, comincia a riflettere sul concetto di “infinito”. L’essere umano fatica a comprendere l’idea dell’immensità, sia spaziale che temporale: nondimeno, egli ci si prova, mosso da un naturale stimolo alla conoscenza.
Chi, meglio di un ragazzino, è dotato della capacità di sorprendersi, di conoscere, di meravigliarsi?
C’è qualcosa che accomuna La ragazza delle arance, ultima fatica di Gaarder, e Il mondo di Sofia, l’opera che ha decretato la fama internazionale dell’autore: la storia prende il via grazie ad una lettera, e questa lettera ha, come destinatario, un adolescente.
In entrambi i casi i ragazzi sono spinti se non alla risoluzione di importanti quesiti, per lo meno alla riflessione su di essi.
La vita, seppur considerando l’irrimediabilità della morte, è paragonabile ad un biglietto della lotteria: e, se pensiamo alla bellezza della natura e dell’esistenza stessa, non può che trattarsi di un biglietto vincente.
Un biglietto che vale sempre la pena giocare: questo è l’insegnamento di un racconto toccante e ricco di poesia.


Titolo originale: Appelsinpiken
Autore: Gaarder Jostein
Editore: Longanesi
Anno della prima pubblicazione: 2004
Genere: romanzo
Giudizio: Ottimo

martedì 7 febbraio 2012

L'iguana


Il romanzo di Anna Maria Ortese, L’iguana, si compone di ventiquattro capitoli, i cui primi otto uscirono a puntate sul “Mondo” fra l’ottobre e il novembre 1963. Il libro fu poi pubblicato da Vallecchi nel 1965.
La trama è allegorica e di non semplice interpretazione, perché caratterizzata dai continui passaggi dal piano della realtà a quello del fantastico, e da una difficile collocazione temporale. Questo, in breve, il sunto.

Don Carlo Ludovico Aleardo di Grees, dei duchi d’Estremadura Aleardi, nonché conte di Milano, intraprende un lungo viaggio attraverso il Mediterraneo, alla ricerca di nuove terre da acquistare. Egli è un affermato architetto, e compie la sua annuale crociera nell’intento, su suggerimento materno, di arricchire il patrimonio di famiglia. Daddo, così è altrimenti chiamato il conte, è spinto anche da un altro progetto: quello di ritrovare, per poi dare alle stampe, qualche scritto inedito. Adelchi, giovane editore, amico milanese del Daddo, è, infatti, alla ricerca di un prodotto che possa sorprendere il pubblico: un’opera, come suggerisce egli stesso, che “manifesti la rivolta dell’oppresso”.
Il panfilo del conte salpa alla volta della Sardegna, prosegue poi lungo la costa spagnola, e giunge, alla fine, nei pressi di alcune isole portoghesi. Una in particolare, non segnata sulla carta nautica, sembra destare il suo interesse. Si tratta dell’isola di Ocaňa, un piccolo promontorio a forma di “corno”, sulle cui spiagge Daddo approda senza indugio, attratto dall’aspetto forse un poco sinistro del luogo.
Qui incontra il marchese don Ilario Jimenez, con i suoi fratelli Felipe e Hipolito. Costoro, della casata dei Guzman, sono i proprietari dell’isola, sulla quale vive anche un’altra creatura: trattasi di una donna-rettile, un’iguana, per la precisione, che ha il compito di badare all’umile dimora del marchese. Il conte Aleardo, mosso a compassione per la sorte della servetta, decide di prendersi cura di lei, e per fare ciò si dice disposto anche a riscattarla, per poi condurla con sé a Milano. Nel frattempo, approfondendo la conoscenza con Don Ilario, Daddo scopre che il marchese si diletta nella composizione di alcuni poemi. Le sue liriche, dal sapore antico, richiamano alla memoria ben altri capolavori, ma appaiono al conte Aleardo meritevoli di una tale considerazione, da fargli vagheggiare futuri successi editoriali in patria. La prospettiva di un immediato e sostanzioso guadagno non sembra però interessare Don Ilario e i suoi fratelli: caduti ormai in miseria, i signori dell’isola si sono ridotti a venderla ad una facoltosa famiglia. Il contratto sarà suggellato dal matrimonio di Don Ilario con la figlia dei ricchi acquirenti.
L’unico problema resta l’eventuale sistemazione dell’iguana, cui in passato il marchese sembra essere stato molto affezionato: un sentimento che, per misteriose ragioni, è poi mutato, fino a trasformarsi in repulsione e ostilità, tanto da degradare l’animale al ruolo di sguattera.
Nell’arco di un solo giorno gli eventi precipitano, ad un punto tale da condurre il conte alla soglia della pazzia. Egli, colto da strane visioni, non riuscirà più a distinguere tra la dimensione della realtà e quella del sogno. Infine, in pieno delirio, troverà la morte cadendo nel pozzo, nell’estremo tentativo di salvare l’iguana.

Il simbolismo de L’iguana coincide con la scelta stessa dell’animale come protagonista (l’essere ambiguo, tema caro all’Ortese, ricorrerà anche nell’altra sua famosa opera, Il Cardillo innamorato). Sotto svariate forme, sia che si tratti di una donna-rettile, o di un serpente, o di una lucertola (che, sebbene in miniatura, rimanda ad un altro essere fantastico, il drago), tutti questi animali rappresentano l’emblema stesso del male, la sua incarnazione. È inoltre superfluo ricordare come la natura negativa e doppiamente tentatrice del serpente e della donna siano di chiara derivazione cristiana. Nel caso specifico, però, l’iguana fa parte della categoria degli oppressi, e non degli oppressori. Quasi priva della parola (salvo qualche interiezione: i suoi “nao, nao, nao…”), essa accetta di buon grado quello che il destino le riserva; nel suo sguardo - gli occhietti “scuri e dolorosi” - si può leggere tutta la sua rassegnazione.
Paola Azzolini1, esaminando il testo dell’Ortese, suggerisce altre metafore: fra queste, il pozzo, luogo spesso citato nelle antiche fiabe, che a sua volta rimanda all’acqua, elemento cui l’iguana ineluttabilmente appartiene. L’impossibile accoppiamento fra l’uomo e la bestia, altro tema tipicamente fiabesco: da qui la redenzione dell’iguana, che, grazie al sacrificio finale di Daddo, si trasformerà in una vera e propria donna.

Questo leggiamo nell’affettuosa e partecipe introduzione che il poeta Dario Bellezza, amico fraterno, dedica ad Anna Maria, in un’edizione de L’iguana datata 1978:
Nella polemica fra natura e cultura la Ortese ci da in regalo questo essere mostruoso, mezzo umano e mezzo animale, che sa soffrire e piangere come in un’infanzia smarrita la certezza di un bene inarrivabile anche se qualcuno pensasse di attribuirsi il Male.”2
Bellezza si riferisce alla denuncia, neppure troppo velata, che l’Ortese inserisce nelle prime pagine de L’iguana: “(…) vale la pena di accennare ad una strana confusione che dominava allora la cultura lombarda, e condizionava perciò l’editoria, su ciò che si deve intendere per oppressione e conseguente rivolta. (…) i Lombardi avevano per certo che un mondo oppresso abbia qualcosa da dire (…)”

Miseria, dolore, solitudine costellarono la vita di Anna Maria Ortese, scrittrice autodidatta ed appartata, per quanto vincitrice di alcuni Premi letterari. La vita e la scrittura furono per lei inscindibili, anche se, nei rari casi in cui non riuscì ad onorare i propri impegni, non mancò di entrare in polemica con le stesse case editrici per cui lavorava. Questo, infatti, soleva dire di sé: “Si scrive perché si cerca compagnia, poi si pubblica perché gli editori danno un po’ di denaro”.
Fu per sottrarsi alla sua triste realtà, che cercò rifugio nell’immaginazione: la dolce, esotica storia dell’iguana ne è un mirabile esempio.
1 Cfr. P. Azzolini. http://www.storiadelledonne.it/attanasio/azzolini.html
2 Dario Bellezza – Introduzione a L’iguana – Rizzoli Editore Milano 1978

Dopodomani


TRAMA: Due amici si incontrano dopo anni di lontananza. Un vecchio smagrito come un chiodo che nuota in un mondo tutto suo. Un tipo con gli occhi di pietra scavata che, di traverso alla morte, trova la vita. Valentina che a sedici anni è madre di due gemelli. L’Olanda. Un motorino. Gli zoo, giardinetti di periferia. Il mitico bidello con la caramella in bocca. Una psicologa in versione Tinto Brass …

RECENSIONE: “Dopodomani è un intrecciarsi delle storie di tre ragazzi molto diversi, alla ricerca di un senso, di una bussola nella vita.” 1
Sono le stesse parole dell’autore a fornirci una traccia per la lettura della sua ultima fatica, in ordine di tempo, pubblicata da “Il Foglio”.
A soli ventiquattro anni, infatti, Luca Pizzolitto è già al suo terzo lavoro: un romanzo, Ballando al buio pubblicato nel 2002 e un’antologia di racconti, Cielo giallo, mare blu, uscita nel 2003.
Ora è la volta di Dopodomani: una storia, o meglio, più storie, ambientate nella periferia di Torino.
Il tutto è registrato con gli occhi e le parole di un diciannovenne: la naja, lo studio, la famiglia, gli amici, l’amore, l’impegno sociale.
Un linguaggio che corre veloce, e sembra non doversi fermare mai.
Matteo è la voce narrante: il vortice dei suoi pensieri, delle sue parole, investe il lettore. Musica, letteratura, filosofia: Pizzolitto da prova di esserne un consumatore onnivoro.
Le citazioni vanno da Buzzati, a Bakunin, a Pennac; passando per Il grande Gatsby di Fitzgerald, Italo Calvino, la logica di Hegel e, buon ultimo, Friedrich Nietzsche.
Per non dimenticare i Clash e i Velvet underground.
I dialoghi sono serrati, i personaggi sufficientemente tratteggiati: gli si può rimproverare solo qualche leggera sbavatura, qualche tono enfatico, che il tempo e l’esperienza provvederanno sicuramente a sanare.
Dopodomani è un romanzo da consigliarsi soprattutto a chi ventenne non è più.
Può rappresentare un piccolo saggio, utile, però, ad aprire una breccia, attraverso la quale conoscere i sogni, e le paure dei giovanissimi. Utile, magari, anche a comprenderli.
1 http://www.stradanove.net/news/testi/vips-03a/vaspa2703030.html




Titolo: Dopodomani
Autore: Luca Pizzolitto
Editore: Ass. Culturale Il Foglio
Anno della prima pubblicazione: 2004
Genere: Narrativa
Giudizio: Buono

Il buio e la colomba. Storie del presente remoto


TRAMA: In questo volume, sono contenuti i racconti che hanno vinto il premio Giuseppe Giusti per la narrativa inedita (2000) e altri, che hanno ricevuto, singolarmente, altri premi e segnalazioni. "Il buio e la colomba": premio "In-edito Holden" e un premio al Ceppo Proposte; "Il ventiseiesimo colloquio", secondo classificato al premio Lovecraft; "Con la luna e senza luna, signor tenente" e "Carne", pubblicati nell'antologia "Onda lunga"; "L'assedio e la cometa" finalista nel concorso "Le storie del novecento"; "Memoria esaurita", vincitore del premio Holden - Giallo Cremona"; "Il dodicesimo anniversario", finalista del premio Pordenone.it. La raccolta include inoltre racconti più recenti.

RECENSIONE Basta sfogliare Il buio e la colomba per entrare in contatto con un intero universo: quello che l’autore identifica col “presente remoto”, come evidenziato nel sottotitolo.
La narrazione di Selleri non può certo dirsi rilassante, anzi, più spesso lascia perfino sgomenti; eppure è trascinante, davvero coinvolgente.
Il libro è popolato da uomini in giacca e cravatta, giovani schiavi ai semafori, ragazzi di strada, impasticcati e ladruncoli per necessità, prostitute; amanti gelosi, amanti assassini, amanti assassinati.
Gli ambienti sono fra i più diversi: i motel, i quartieri residenziali, i cantieri abbandonati, la metropolitana, l’aperta campagna.
Ai racconti di Selleri ben si adatta una definizione che appartiene a Flannery O’ Connor: “Un racconto implica sempre, in forma drammatica, il mistero della personalità” 1.
Quasi tutti i personaggi, sia quelli solo abbozzati, sia quelli meglio descritti, paiono avvolti in un alone di mistero. Sono tutti caratterizzati da una solitudine che non è puramente e solo fisica, ma che sembra appartenere più all’anima che al corpo; una solitudine che sovente si traduce nella mancanza di una qualsiasi forma di moralità.
Il sangue scorre a fiumi, imbrattando gli eleganti divani di lindi appartamenti borghesi, le anonime stanze d’albergo, il sudicio asfalto delle tante periferie che incombono sulle metropoli.
Si resta impotenti di fronte a tanta efferatezza; passando da una storia all’altra (una sequenza simile a quella di tanti cortometraggi) si prova talora un senso di smarrimento, sebbene, dei fatti narrati, si possa solo restare increduli testimoni.
La morte è spesso preceduta dal sesso, se non addirittura a questo inesorabilmente collegata. D’altra parte, se il trapasso non avviene in modo violento, esso è in ogni caso indotto da una vita d’eccessi o da speranze andate irrimediabilmente deluse.
L’autore è senz’altro dotato di grande padronanza linguistica, e non solo perché spazia fra i vari dialetti, la parlata gergale e quella colta, ma soprattutto perché riesce ad interpretare, efficacemente, i singoli punti di vista del variegato mondo che rappresenta.
Ad esempio: la maestria dello scrittore raggiunge il suo apice dove riesce a rendere convincente finanche il pensiero estetico di una … tazza di porcellana.
Ne La padrona, infatti, il commento del dramma che si sta consumando è affidato all’oggetto che si trova riposto in una credenza, e che funge, suo malgrado, da spettatore; beffardamente, per altri protagonisti (più) “umani” del libro, non si può vantare lo stesso raziocinio, come nel caso di Con la luna o senza la luna, Signor tenente.
Oppure si pensi alle voci che descrivono il cantiere abbandonato – nel quale hanno trovato rifugio – e che appartengono a creature fra loro del tutto dissimili; due cani randagi ed una ragazzina che, per sopravvivere, è costretta a prostituirsi.
In altri racconti, invece, il segnale di una lucida follia, o dell’effetto distruggente della droga, è dato dall’incalzante ed ipnotico ripetersi d’alcune esclamazioni (Il merlo d’Augusta, La bella morte); fatta eccezione per Memoria esaurita, nel quale il riproporsi dell’identica frase costituisce il fulcro della narrazione stessa.
Resta al lettore il compito di interrogarsi sulla realtà che gli si mostra: essa è aderente alla nostra quotidianità, oppure è un poco romanzata?
Su di un importante particolare, ad ogni modo, io credo, si può essere concordi: Il buio e la colomba è una raccolta di bellissimi racconti.
1 F. O’ Condor : Nel territorio del diavolo – Ed. Minimum fax Roma pag. 63


Titolo: Il buio e la colomba. Storie del presente remoto
Autore: Selleri Aldo
Editore: Lampi di stampa – Collana: I libri di Alice.it
Anno della prima pubblicazione: 2004
Genere: Narrativa
Giudizio: Ottimo

lunedì 23 gennaio 2012

La doppia vita di Vermeer

TRAMA: Jan Vermeer di Delft è uno dei pittori più enigmatici, misteriosi e ambigui della storia dell'arte. Anche oggi la sua vita resta avvolta nell'oscurità, e ancor più la sua carriera artistica. Morto in disgrazia nel 1675, dimenticato per due secoli, viene riscoperto solo nella seconda metà dell'Ottocento. In breve tempo la sua fama cresce a dismisura, anche per merito dell'ammirazione che gli tributano scrittori celebri come Marcel Proust. Ma questo libro racconta soprattutto un'altra storia, la storia incredibile di Han van Meegeren, artista olandese del Novecento che, per vendicarsi dei critici che avevano stroncato il suo lavoro di pittore tradizionalista nel secolo delle avanguardie, dipinge una serie di falsi Vermeer.

RECENSIONE: Attraverso trecento anni, Luigi Guarnieri racconta la vita del pittore Jan Vermeer, proseguendo poi con quella più turbolenta di Han van Meegeren, divenuto il falsario più noto e più pagato del ventesimo secolo.
La lunga storia si snoda tra mercanti d'arte e collezionisti, pittori falliti e genii incompresi. Per prendersi gioco e vendicarsi di critici di fama mondiale, che a suo tempo lo hanno screditato come pittore, van Meegeren crea dei mirabili falsi, costruiti, è il caso di dire, a "regola d'arte". A cominciare dai colori, non sintetici, bensì prodotti secondo i metodi in uso nel Seicento. Per non parlare della tecnica di "invecchiamento" rapido dei dipinti. La maestrìa di van Meegeren consiste, infatti, nello spacciare i suoi quadri, appena realizzati, per opere risalenti ad almeno tre secoli prima. Un lavoro certosino, dove nulla è lasciato al caso. Il falsario dipinge su tele del Seicento: asporta quasi completamente il soggetto originario e riproduce, in perfetto "stile Vermeer", temi di chiara ispirazione biblica.

"Imparare a guardare, (…) è la base dell'apprendimento di qualsiasi arte, tranne la musica (…)"3

Per meglio comprendere ed apprezzare La doppia vita di Vermeer è consigliabile sfogliare, contemporaneamente, un catalogo dei dipinti del grande pittore (o fare una ricerca in internet).  L'operazione si rende utile poiché l'autore fa continui riferimenti ai particolari di ogni singola tela. Vi si descrivono minuziosamente il colore (preferiti il giallo ed il blu oltremare), il sapiente uso della luce, la prospettiva (per la quale Vermeer usava dei geniali accorgimenti).
Il racconto si fa sempre più descrittivo: una parola corrisponde, sovente, ad una pennellata. L'unione fra la letteratura e la pittura, in questo caso, è suggellata dall'ampia digressione dedicata a Proust.
Marcel Proust, nella sua Recherche, fa menzione della Veduta di Delft, uno dei quadri più famosi e controversi di Vermeer. Uno dei suoi personaggi, infatti, morirà subito dopo avere contemplato questo dipinto, nella vana ricerca di un particolare che forse non è mai nemmeno esistito.
Del resto, non stupiamoci: letteratura e pittura si sono spesso comparate, nel corso del tempo. Molti scrittori, del resto, furono anche pittori: ricordiamo, solo per citarne alcuni, Montale, Ungaretti, Moravia, Gatto, Zavattini, Buzzati, Lalla Romano.
Il fenomeno che lega il romanzo a un dipinto (o a un celebre pittore) è relativamente recente.
Autori come Buzzati e Calvino, ad esempio, hanno fatto pure loro ricorso "all'interazione fra parola ed immagine". 2 
Tracy Chevalier ha ottenuto grande successo di vendita pubblicando, per restare in argomento, La ragazza con l’orecchino di perla. Lo stesso percorso pare sia stato intrapreso da Susan Vreeland, con La Passione di Artemisia (che ha un illustre precedente in Artemisia, scritto negli anni Quaranta da Anna Banti). 3
In questa circostanza un'arte - la letteratura - si pone al servizio di un'altra arte - la pittura.
Chi è appassionato di entrambe le arti, apprezzerà in modo particolare La doppia vita di Vermeer, peraltro di godibilissima lettura.



1 F. O' Connor Nel Territorio del diavolo - Sul mistero di scrivere Ed. Minimum fax Roma 2003

2 cfr l' articolo di Francesca di Mattia, www.railibro.rai.it

3 cfr. Francesca di Mattia, articolo citato.



Titolo: La doppia vita di Vermeer
Autore: Luigi Guarnieri
Editore: Mondadori
Anno: 2004
Genere: Narrativa
Giudizio: molto buono


Il Castello d’acqua


TRAMA: "L'Esposizione torinese di cui si parla nel romanzo "Il Castello d'Acqua", che Mario Lattes (1923-2001) ha lasciato inedito tra le sue carte, è quella Universale del 1911. C'è dunque un tempo, c'è un décor, c'è una famiglia, c'è un protagonista, c'è una terza persona che racconta. Ma tutto si muove in una dimensione "altra", simbolica, di allarme e di attesa senza fine. Concepita come lo sfondo lungo il quale navigano brandelli di mondo e di figure (la Belle Époque, il fascismo, l'impero, la guerra di Spagna, le leggi razziali, la seconda guerra mondiale), la storia si converte nella dimensione visionaria del miraggio." (Giovanni Tesio)


RECENSIONE: Non è facile accostarsi alla lettura de Il Castello d’acqua. Non è facile impossessarsi delle decine, delle centinaia di parole che servono a descrivere un disagio, e che sembrano inseguire, talvolta con affanno, i ricordi.
Mario Lattes, a detta dei suoi biografi, fu un autore “scomodo”: amato dalla critica ma sconosciuto al grande pubblico.  Si cimentò anche nella pittura, e suo è il quadro (La Torre di Babele) riprodotto in copertina.
Questa è un’opera inedita, pubblicata a tre anni dalla morte del suo autore. È una storia autobiografica; quella di un ragazzo d’origine ebrea, che condurrà con successo, fino all’ultimo, la celebre casa editrice torinese “Lattes”.
Torino, appunto. La città fa da sfondo al racconto delle vicende di Agur e dei membri della sua famiglia. Il capoluogo si riconosce nella descrizione dei palazzi, nella quasi maniacale elencazione delle vie, il cui nome, in parte, non esiste più: il tempo ha provveduto a cancellarlo e a sostituirlo.
Torino ha dato i natali a grandi scrittori; fra questi, Cesare Pavese, Primo Levi, Pitigrilli. Gli ultimi due erano di origine ebrea, come lo fu Natalia Ginzburg, palermitana, ma torinese di adozione. Superfluo aggiungere che la comunità ebrea, in Italia e nel resto del mondo, ha sempre prodotto cultura: “L'abitudine a leggere, scrivere e studiare agevola l’integrazione con la cultura circostante”.1
Anche la Storia fa da sfondo al romanzo di Lattes, che inizia con una data precisa, quella dell’Esposizione Universale di Torino, nel 1911. I suoi protagonisti si aggirano fra i padiglioni della grande Mostra, perdendosi e ritrovandosi; e muovendosi quasi in una dimensione onirica, là dove invece imperano la realtà, il Progresso.
E poi la Storia: la Grande Guerra, il ventennio fascista prima e le leggi razziali poi, fino alla fuga di Lattes/Agur, e la sua salvezza (troverà rifugio a Roma, e sarà più fortunato di tanti altri ebrei che saranno invece deportati).
Questi importanti avvenimenti fanno da cornice ad una narrazione complessa e sofferta.
La scansione temporale è data, piuttosto, dalla minuta descrizione (a volte impietosa, come può esserlo quella di un giovane, di fronte alla vecchiaia) fatta da Agur sull’incanutirsi delle chiome e l’avvizzirsi della pelle dei propri cari. Anche l’elenco dei diversi arredi: “… stoffa che foderava la toilette, velata di tulle bianco a incrostazioni di mussola (…)” e “ (…) già presenti il sofà Covercover in Rofoam strato isolante di Dacron (…) le sedie accatastabili in Cyclac rosso.” indica, senza dover ricorrere ad altre parole, il trascorrere del tempo.
Agur appare insofferente alle regole, talvolta distaccato, insensibile nei confronti dell’altrui sorte. Nei ricordi dell’autore si affastellano frasi ascoltate e ripetute per anni dai congiunti o dagli amici di famiglia, motti e gesti che si sono poi conservati nella sua memoria: inevitabile il richiamo a quel Lessico familiare della già citata Ginzburg, che peraltro trascorse parte della sua vita proprio nella Via Pallamaglio (ora Via Morgari) citata dallo stesso Lattes.
Il nostro autore racconta una familiarità che è tutta contenuta nel rito pasquale delle azzime, nella lettura dei versi al Tempio, nella scelta del vestiario.
La difficile punteggiatura, le esclamazioni che erompono a metà pagina, il balletto dei caratteri minuscoli e maiuscoli non impauriscano il lettore.
Della scrittura di Lattes ci si può lentamente impossessare. Centellinandola, assorbendola.
Allo stesso modo si può fare con la storia della sua vita.



Titolo: Il Castello d’acqua 
Autore: Mario Lattes
Editore: Aragno
Anno: 2004
Genere: Narrativa
Giudizio: Buono